di Fr. Roberto Tadiello
Il libro dei giudici si occupa del periodo che va
dalla morte di Giosuè alla istituzione della monarchia in Israele (1200-1025
a.C.) e presenta fatti staccati e particolarmente importanti relativi a dodici
"giudici" di cui sei appena ricordati. I "giudici" erano
capi militari e politici che Dio suscitò in quel periodo per risolvere le crisi
che il popolo di Israele viveva venendo a contatto con le popolazioni indigene
e idolatre al momento del suo insediamento in Palestina.
Le storie sono narrate secondo un preciso modello letterario
e teologico:
- "Israele pecca contro Dio".
- "Dio lo consegna nelle mani dei suoi nemici".
- "Gli israeliti piangono".
- "Dio manda un "giudice" a salvarli e liberarli".
- "La terra ha pace per un periodo più o meno lungo (di solito 40 anni)".
Lo scopo è quello di insegnare che le crisi e le
difficoltà di Israele trovano il loro fondamento nella sua infedeltà a Dio,
quando cede alle suggestioni dell'idolatria. Da queste crisi solo Dio, che ha
pietà delle sofferenze del popolo, potrà liberarlo (Gdc 2,11-19). Debora è
l'unica donna detta "giudice" ed agisce nel senso moderno del termine
risolvendo le dispute che sorgevano tra il popolo. La Bibbia ricorda anche il
luogo dove emetteva le sue sentenze: sotto la "palma di Debora tra Rama e
Betel, sulle montagne di Efraim" (4,5). A Debora si affianca Giaele,
un'altra eroina del libro, che ucciderà Sisara, capo dell'esercito nemico.
La storia è ripetuta nei capitoli 4 e 5, nel
primo in forma narrativa, nel secondo in forma poetica, dove la poesia
raggiunge il suo apice nel "canto di Debora" che probabilmente,
secondo l'opinione comune degli studiosi, è la più antica composizione della
Bibbia.
Il racconto (Gdc 4)
Nei versetti 4,4-5 Debora, che significa ape, è
brevemente presentata: "Debora, donna profetessa, moglie a (di) Lappidot
giudicava Israele in quel tempo". Nell'AT il titolo di profetessa è
attribuito assai di rado alle donne (Es 15,20; 2 Re 22,14; 2 Cr 34,2; Ne 6,14;
Is 8,3; Lc 2,36). In questo caso il suo significato è probabilmente vicino a
quello di veggente. Il narratore la ritrae seduta sotto la palma dove esercita
il giudizio tra le parti in causa: "Gli israeliti venivano a lei per le
vertenze giudiziarie" (4,5). Un ruolo di grande importanza per una donna a
quel tempo, ma non estraneo alle culture semitiche che hanno avuto delle donne
veggenti o che amministravano la giustizia.
Quando il ciclo negativo di peccato e di
sofferenza ri-inizia: "Eud era morto e gli Israeliti
tornarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore. Il Signore li mise
nelle mani di Iabin re di Canaan, regnava in Azor" Debora chiama
Barak (4,6) al quale trasmette gli ordini e la strategia del Signore, che è il
protagonista della battaglia e della vittoria. Egli deve radunare diecimila
uomini delle tribù di Neftali e di Zabulon e marciare verso il Tabor, dove
metterà nelle sue mani, al torrente di Kison, Sisara, generale di Iabin, con i
suoi carri e le sue truppe (4,7). Barak accetta a condizione che Debora lo
accompagni. La profetessa acconsente mentre gli preannuncia che la gloria della
cattura di Sisara non sarà sua, ma di una donna (Giaele). In tutta la vicenda
Debora si rivela una donna forte, risoluta, coraggiosa e piena di spirito di
iniziativa. Va con Barak fino a Kades, ove avviene la convocazione dei
diecimila soldati delle tribù di Zabulon e Neftali (4,10). Sale al Tabor dove
incoraggia Barak prima dell'inizio della battaglia con queste parole:
"Alzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sisara nelle
tue mani. Il Signore non esce forse in campo davanti a te?" (4,14).
Debora, profetessa-veggente, anima la battaglia e assicura la vittoria che sarà
opera di Dio. Nelle parole di Debora riecheggia un'antica immagine di Dio come guerriero
ed eroe in battaglia, Signore degli eserciti (Yhwh seba'ôt). La
battaglia è descritta brevemente con pochi tratti che offrono al lettore la
chiave per interpretare la vittoria: essa è opera del Signore (4,15.16) che
"umiliò quel giorno Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti"
(4,23).
Nel frattempo un'altra donna, Giaele, era
impegnata a distruggere Sisara, il generale dell'esercito nemico (4,17-22).
Giaele è moglie di Eber il kenita. Sisara in fuga si rifugia nella sua tenda
"perché vi era pace tra Iabin, re di Azor e la casa di Eber il
kenita" (4,17). La donna gli esce incontro, gli parla in modo accattivante
e lo invita a non temere (4,18). Sisara non replica, non chiede spiegazioni, ma
subito entra (4,18c) e Giaele lo nasconde sotto la coperta. Alla richiesta di
un po' d'acqua, Giaele si mostra più che ospitale e gli offre il latte,
facendolo bere dall'otre. La donna manifesta ancora una volta tutta la sua
premura ricoprendo Sisara (4,19). Non appena Sisara cade nel sonno profondo
Giaele lo uccide (4,20-21). La descrizione è sobria ma allo stesso tempo
sottolinea come l'azione non fu frutto di un piano premeditato, ma effetto di
un impulso repentino. Ciò è confermato dal fatto che ella non usa un'arma
convenzionale (spada, lancia ecc.) ma un piolo della tenda che si trovava a
portata di mano e un martello, probabilmente di legno, adoperato dai beduini
per fissare la tenda a terra.
La trasformazione di Giaele da donna pacifica ed
ospitale a donna risoluta, forte e coraggiosa è sottolineato dalle parole con
cui si rivolge a Barak: senza preamboli e dolci allettamenti gli dice in modo
franco e schietto: "Vieni e ti mostrerò l'uomo che cerchi".
Il canto di Debora
La storia è ripresa nel canto poetico di Debora,
che sicuramente ha preceduto il racconto in prosa e lo ha ispirato. La sua
composizione risale probabilmente al tempo stesso degli avvenimenti, fu
tramandato oralmente e in seguito posto per iscritto. Nel versetto 5,1 Debora è
presentata come l'autrice del canto, insieme a Barak, che con grande probabilità
è stato aggiunto successivamente.
Nel versetto 7, all'interno della descrizione
dello "stato di miseria durante l'oppressione" (5,6-8), Debora è
presentata come "madre d'Israele" (lett. madre in Israele), titolo di
rispetto e di merito per una donna che si è impegnata per la giustizia e per la
difesa del suo popolo.
Debora "sorge" quando tutto era
stravolto e le condizioni del popolo erano disastrose: non c'era sicurezza per
i viandanti (5,6); regnava l'anarchia (5,7) e l'idolatria era diffusa (5,8). Segue l'incitamento ai comandanti d'Israele
ed l'invito ai volontari tra il popolo a proclamare la vittoria del Signore
(9-11). Debora stessa è invitata a cantare in 5,12 mentre Barak è incitato a
catturare i prigionieri. Seguono i preparativi per la battaglia (13-18), mentre
vengono elogiate le tribù partecipanti è schernite quelle che esitano alla
battaglia: una battaglia cui ha partecipato perfino il cosmo con le stelle e il
torrente Kison (19-22).
A questo punto il canto si apre in una
benedizione di Giaele (24-26) quasi a smussare la maledizione sugli abitanti di
Meroz che non sono intervenuti "in aiuto del Signore" (4,23). Giaele,
moglie di Eber il Kenita (5,24a), è una "donna della tenda", cioè una
beduina (5,24b), e come tale è ospitale (5,25). È benedetta fra le donne, anzi
la più benedetta delle donne (5,24 due volte). La sua offerta di latte acido
(yogurt forse?) è segno di massima considerazione per l'ospite; ciò è
sottolineato poi perché lo offre non in una coppa normale ma in una coppa da principi.
Il testo biblico ha un cambiamento brusco tra i
versetti 25-26 quasi a denotare un cambio nella personalità di Giaele che
stende la mano al picchetto e la destra ad un martello, non armi convenzionali
ma utensili quotidiani per un beduino. Con essi trafigge Sisara che "si
contorse, cadde e giacque" ai suoi piedi (5,27).
L'uccisione di un uomo già fisicamente provato,
per giunta ospite, può essere moralmente riprovevole, ma non è questo il centro
del racconto e del brano poetico. Giaele realizza la profezia di Debora:
"Il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna" (4,9). È quindi
Dio che vince, per mano dell'eroina Giaele una donna pacifica, il nemico di
Israele e non Barak con tutto il suo esercito. È Dio che libera il popolo e lo
fa non con l'apporto dell'esercito e del suo generale, ma con le mani di una
donna trasformata.
Nel libro dei Giudici Debora, profetessa e
giudice, e Giaele, l'eroina, sono due donne forti, energiche, coraggiose,
intraprendenti, ma anche modelli di fede e di disponibilità totale nelle mani
di Dio, strumenti della sua volontà di salvezza e del dono della terra al suo
popolo. Infatti dopo questi racconti il narratore annota: "Poi il paese
ebbe pace per quarant'anni" (Gdc 5,31c).
Fra Roberto Tadiello OFMCap
Frate cappuccino della provincia veneta. Ha
conseguito la licenza e il dottorato in Teologia Biblica presso lo Studium
Biblicum Franciscanum (Facoltà di Scienze bibliche e archeologia) di
Gerusalemme con una tesi sul libro di Giona.
e-mail jonah_ti@yahoo.it
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